martedì 28 giugno 2011

Il virus balcanico - primo capitolo


 Esiste un modo ideale per iniziare a raccontare la storia della propria vita e non farla sembrare banale nello stesso tempo, banale e simile a tante altre? Il vecchio cliché di una storia felice che avrei potuto scrivere quando ero più gio­vane non fa ormai per me. Lo so, ce ne saranno mille di storie molto più interes­santi di quella che parla di un vulcano da qualche parte nel cuore dei Balcani esploso un giorno spargendo al posto della lava il sangue di tanta gente innocen­te che non se lo meritava. Un vulcano tanto potente, tanto forte che influenzò le scelte di molti, me inclusa, tutti quanti noi che per vivere abbiamo fatto un giorno le valigie raggiungendo qualunque parte del mondo in cerca di un futuro migliore, in cerca di un antidoto a quel virus balcanico da cui erano ammalati non solo i nostri politici. Purtroppo, nessuno ha ancora trovato quella cura ma ormai, a che cosa servirebbe? A farmi fare un passo indietro?
Stamattina ho trovato una vecchia scatola piena di lettere, di ricordi di mia gioventù, di quel passato che ci dava molto e toglieva tanto nello stesso tempo. Mi sembrava di aver sentito lo stesso brivido come in quella mattinata primave­rile dell'ormai lontano 1999 in cui chiamai Giuliana con quella voce tremante e le dissi semplicemente: “Aspettami all'aeroporto, arrivo a... ” Ho l'impressione che il passato si stia prendendo il gioco di me, ma lo affronterò con coraggio come sempre. Mi aspetta l'ennesima battaglia contro il passato che intendo vincere perché la vita è unica, non ce ne saranno delle altre, e bisogna viverla fino a fon­do come giustamente diceva mia nonna. Una vita che dura poco e bisogna ap­profittare di ogni suo instante.
Da qualche tempo che rimandavo questo momento scappando dal solo pensiero che potesse arrivare un giorno. Correvo come una matta da un anno all'altro cercan­do di dimenticare il passato, propri errori che magari avrei potuto evitare, ma ignoravo quel vecchio detto che afferma che la verità esce sempre a gala. Quando le ho dato la possibilità di scegliere il regalo per il suo diciottesimo compleanno non avrei mai pensato che mia figlia avrebbe scelto di tornare in quella città che per me ormai non esisteva più, che pensavo di aver seppellito tra i ricordi del passato. Avevo cercato in tutti modi di dissuaderla da quell'idea assurda, per me almeno, ma tutto era inutile. Vittoria era una testarda, proprio come me. Mi ave­va messo davanti al fatto compiuto e non avevo altra scelta tranne che acconsen­tire quella follia.
Non volevo ammettere ma in fondo capivo che lei aveva ragione, e continuare a scappare dalle proprie radici non aveva ormai alcun senso. Dovevo fare quel viaggio non solo per accontentare Vittoria, lo dovevo a me stessa e alla mia fa­miglia ma soprattutto lo dovevo a coloro che non ci sono più e a coloro che do­vevano ancora vivere coscienti di quelle radici che non avevo il diritto di negare. Così ho capitolato ed eccomi qui. Sto per partire in ricerca delle stesse radici che fino a qualche giorno fa volevo cancellare, ma ora ho capito che, se le ritrovo, ritroverò anche me stessa. È arrivata l'ora di rincontrare Belgrado come tempo fa Rastignac rincontrò la sua Parigi. È giunta l'ora di fare i conti col proprio passato rimasti in sospeso per troppi anni.
“Penso che questo sia il miglior regalo che tu e papà potevate darmi!” Con una voce piena di entusiasmo esclamò Vittoria interrompendo il dialogo che facevo con me stessa.
“Per anni cercavi di convincerci di portarti in città dove nascessimo mamma ed io. Ci voleva del tempo per decidere di partire ma alla fine ci siamo convinti anche noi.” Con tanto amore e dolcezza rispose mio marito. Ritorno a Belgrado sia per me sia per lui significava molto di più che una semplice visita turistica della capitale serba. Significava aprire la scatola di Pandora del nostro passato tormentato e non sapevamo se eravamo contenti o meno per aver fatto la scelta del ritorno.
“Però alla fine abbiamo capito la tua necessità di ritrovare le proprie radici ora che ne abbiamo bisogno più che mai. Fra poco arriveremo a casa.” Dissi sorri­dendo. A casa. A Belgrado che lasciai con la promessa di non ritornarci mai più. Mai. E ora, sono sull'aereo che fra poco atterrerà all'aeroporto di Belgrado e in mano ho un biglietto che somiglia a quello che tenevo in mano quel giorno di primavera di anni fa solo che questa volta la rotta è invertita: Milano - Bel­grado.
“A casa.” Sussurrò Vittoria confusamente. Quella parola casa le sembrava così innaturale perché da sempre considerava come sua casa quella casa a Milano in cui vivevano, che la contessa Giovanna Tedeschi vecchia amica di suoi genitori gli aveva lasciato in eredità.
“Sai Vittoria, nonostante tutto, solo un posto al mondo è la casa vera.” Dražen notò la confusione della figlia. “Quel posto in cui ti batte il cuore più forte, dove il cielo è di un azzurro chiarissimo e dove il sole ha una luce intensa, indescrivi­bile. E per la mamma e me quel posto era e sarà per sempre soltanto Belgrado.” Concluse mio marito quasi piangendo dall'emozione.
“Non capisco. Da sempre pensavo che Milano fosse la casa nostra e lo conside­ravo l'unico posto dove eravate davvero felici. Belgrado era come un tabù per voi che evitavate con abilità e se non vi avessi convinto io da soli non avreste mai preso l'iniziativa di partire. La madrina aveva ragione. Per voi Belgrado è ancora una fobia dal quale non riuscite ancora a liberarvi!” Replicò furiosa Vit­toria. Aveva ragione ma né io né mio marito avremmo avuto il coraggio di am­metterlo.
“Lo sapevo! Lo sapevo che dietro questa tua idea folle era lo zampino di Ka­tarina.” Dissi arrabbiata. Non m’importava che d'improvviso tutti i pas­seggeri girarono la testa verso di noi.  “Ed io che pensavo di aver preso una deci­sione da sola.” Risi con amarezza.
“Se l'idea ti sembrava così pazzesca mamma, perché l'hai accettata? Con o senza il vostro aiuto io sarei partita lo stesso, lo sapevi. Non pensi che io abbia il diritto di visitare la vostra città natale, la città in cui sono stati seppelliti i nonni? La stessa città in cui ora, ormai da anni, vive lo zio che da quello che ne so io ha sofferto anche più di te?” E poco dire che Vittoria era arrabbiata, era furiosa. Per diciassette anni l'hanno tenuta a oscuro del loro passato, lontano da quei Balca­ni in cui sono nati e cresciuti e non capiva tutta quella protezione. Era però il giorno in cui compiva i diciotto anni e finalmente poteva prendere le decisioni riguardo alla sua vita. Il viaggio a Belgrado era soltanto il primo passo da grandi per Vittoria.
“Ho accettato perché da qualche parte nel cuore ho sentito che è arrivato il momento giusto per ritornare in città dove confluiscono due meravigliosi fiumi Sava e Danubio. E proprio in quel posto un giorno papà, io, zio e nostri amici giurammo che la nostra amicizia sarebbe durata per sempre. Il vecchio giura­mento ci obbliga di rincontrarci un giorno nello stesso posto dove in passato ebbe nascita la nostra amicizia. E quanto pare quel giorno è arrivato.” Dissi con fierezza.
“E non sei arrabbiata con la madrina Katarina per avermi usato come esca per farti tornare a casa?” Mi chiese Vittoria con aria preoccupata.
“Non sono arrabbiata. Non c'è il motivo per esserlo.” Come potrei arrabbiarmi con una delle mie miglior amiche? Avrei dovuto capire da subito che era lei die­tro la richiesta di Vittoria. Katarina, Tijana ed io eravamo miglior amiche da una vita, le tre moschettiere come ci chiamavamo, che un giorno nel giardino dei Grandi giurarono di rimanere unite per sempre, per tutta la vita.
“Grazie Sonia di aver accettato di intraprendere questo viaggio con me e con nostra figlia. So quanto ti costa rientrare a Belgrado e ti ammetto che non è faci­le nemmeno per me tornarci dopo tutti questi anni. Però, nel fondo della mia ani­ma sapevo che sarebbe arrivato il giorno in cui Vittoria avrebbe desiderato di ve­dere la nostra città.” Il ritorno spaventava anche Dražen più di quanto pensava fosse possibile.
“Non ringraziarmi, non c'è di che ringraziarmi tesoro. Qualunque esito avrà questo viaggio io sarò felice. In tutti questi anni mi mancava qualcosa per essere completamente felice e ora capisco che quel tassello mancante era proprio Bel­grado. Ho bisogno di questo viaggio non soltanto per creare un ponte per poter collegare il passato con il presente ma sopratutto per dare a noi tre un futuro di cui abbiamo sempre sognato.” Replicai.
“Anche se non nascondo di aver un po' di paura, sapere che sto per tornare in città in quale sono nato mi rende molto felice. Ovunque ci porti questo viaggio io non mi pentirò.” Rispose Dražen sorridendo.
Vittoria allacciò la cintura cercando di far smettere il suo cuore il cui battito diventava sempre più forte. Il pilota annunciava l'atterraggio all'aeroporto di Belgrado. Per la prima volta visiterà la città dove si erano conosciuti e inna­morati suoi genitori. Era emozionata come quando in quella gita scolastica a Ve­rona aveva visitato per la prima volta la famosa casa di Romeo e Giulietta. Chiu­se gli occhi per far mandare via la paura. Anche se le costava tanto ammetterlo, era un po' impaurita da quello che avrebbe trovato in quella città misteriosa e so­prattutto in casa dove sua madre e zio erano cresciuti. Decise però di rilassarsi e di non pensare. Per la prima volta avrebbe incontrato la sua famiglia belgradese, che rappresentava per lei il più bel regalo per i suoi diciotto anni, e questo bastava per renderla felice. Il resto non contava.
Mentre l'aereo stava per atterrare all'aeroporto che conosceva tanto bene, Dražen non poteva a non ridere dell'assurdità della situazione in cui si trovavano. Anni fa accompagnava Sonia in viaggio a Milano per il suo diciottesimo compleanno e adesso, per la stessa ragione, loro due accompagnavano Vittoria in viaggio al contrario. Le avevano dato la possibilità di scegliere il regalo di com­pleanno ma, neanche per scherzo, avrebbero pensato che la loro figlia avrebbe fat­to una richiesta del genere. Come da sempre prendevano le decisioni insieme, votando per alzata di mano, così, nonostante lo scetticismo iniziale di sua mo­glie, decisero di partire in viaggio in scoperta dei Balcani di cui la prima tappa era proprio Belgrado. Tornavano come una famiglia vera là dove iniziò la storia d'amore tra lui e Sonia e dove un giorno in un futuro lontano sarebbe arrivata a capolinea. Che altro poteva provare Dražen in quel momento che la felicità. Era­no arrivati a casa con la c maiuscola.


La tabella con gli arrivi segnava l'atterraggio del volo AZ 169033 Milano - Belgrado, lo stesso che Sonia la sera prima aveva comunicato a Katarina. Era circondata da un gruppo di amici di vecchia data orgogliosa al solo pensiero che la loro amicizia si era protratta nel tempo nonostante le guerre e varie crisi che la loro patria dovette affrontare in un passato non tanto lontano. Si conoscevano dai tempi di asilo e riuscirono a passare quel forte legame d'amicizia anche ai propri figli che in un futuro avrebbero continuato con la tradizione. Sfortunata­mente, alcuni di loro non erano più vivi ma i loro nomi, insieme ai nomi di tutti quanti, erano ben in vista sulla bandiera con sopra uno stemma grande di Belgra­do e la scritta “Benvenuti a casa”. C'era anche un’orchestra che suonava la can­zone favorita di Sonia, proprio come avrebbe voluto lei se sapeva della festa di benvenuto. Tutto era perfetto, esattamente come Katarina e Tijana avevano pre­visto. Loro miglior amica tornava a casa dopo quasi vent'anni di assenza insieme al marito, loro amico Dražen, e la figlia Vittoria, e due amiche erano molto ecci­tate. Là con loro, ad attendere coniugi Grubišić, c'era anche il fratello gemello di Sonia, Darko, che ormai da anni era tornato a vivere nella capitale. C'erano quasi tutti coloro che il primo gennaio 1991 fecero il giuramento nel punto di con­fluenza di Sava e Danubio che la loro amicizia sarebbe stata immortale, eterna e che un giorno li avrebbe riuniti proprio là, in quel posto. Katarina da sempre pensava che sarebbe arrivato il momento in cui il giuramento si sarebbe realizza­to, che tutti loro si sarebbero riuniti e per fortuna aveva ragione.
Finalmente eccomi qui dove tutto iniziò e dove sapevo che un giorno avrebbe avuto la fine la mia antica battaglia da cui sarei uscita come la vincitrice assolu­ta. Sono tutti qui, la mia famiglia belgradese. Con qualche anno in più ma per me sono gli stessi bambini con i quali sono cresciuta. Non hanno dimenticato che mi piacciono i trombettieri che senza sosta stanno suonando la mia melodia preferita. Hanno anche fatto una bandiera del benvenuto e mi hanno lasciato senza parole. Sono fiera di loro e contenta perché dopo tutti questi anni fanno ancora parte della mia vita e posso dire, che non è da tutti, di avere degli amici veri oltre che buoni. Gli amici che come me portavano da una vita nel cuore un vecchio giuramento che ci ha finalmente fatto rincontrare. Sento già le lacrimucce che luccicano nei miei occhi tradendo le mie emozioni ma che m'importa. In questo momento io sono una donna felice. Il Bisanzio ha finalmente vinto il der­by centenario contro il Vaticano e posso dire che sono finalmente quella vecchia Sonia che si era smarrita da qualche parte, Sonia che finalmente può dire di es­sere guarita da quel virus balcanico.
“Mamma, è una mia impressione o stai piangendo?” Mi chiese Vittoria con premura.
“No, non sto piangendo tesoro. Ho soltanto un ciglio nell'occhio.” Era un vec­chio trucco che Katarina usava spesso per nascondere le lacrime. All'epoca la criticavo per quella messa in scena ma per la prima volta la capisco perfettamen­te.
Con un sorriso felice e gli occhi brillanti Darko osservava sua sorella e la ni­pote che chiacchieravano. Non voleva nascondere le emozioni che provava e per la prima volta in suoi quaranta sei anni poteva dire di essere veramente felice. Sua famiglia era di nuovo riunita a Belgrado, proprio in quella città che doveva­no abbandonare non per loro ma per la scelta di un padre tiranno che da più di un decennio era sotto terra. Ormai erano passati parecchi anni da quando era tor­nato a vivere nel loro vecchio appartamento ma da sempre sapeva che gli man­cava Sonia per completare quel quadro della famiglia felice che cessò di esistere dopo la morte di loro madre. Gli mancava un sacco quella famiglia sparita in cir­costanze sporche di una guerra assurda che d'improvviso scoppiò alla fine degli anni ottanta. Per fortuna quei brutti ricordi appartenevano al passato e Darko non viveva di ricordi. Il presente era molto più bello e costruiva i ponti verso un futuro migliore, un futuro di cui avrebbe pensato domani. Ora non doveva che divertirsi alla festa in onore di sua sorella e la famiglia. Di nuovo erano la fami­glia, la famiglia belgradese come chiamava la sua nipote Vittoria il gruppo di vecchi amici dei genitori. Darko era molto felice e avrebbe voluto che tutto il mon­do lo sapesse.  Tutti loro erano tanto felici perché la vita finalmente gli aveva re­stituito tutto quello che i nemici gli avevano tolto all'inizio degli anni novanta: pace, felicità e amicizia che, non dubitavano, sarebbe durata per eternità.



Festeggiarono il ritorno nella capitale serba fino all'alba. Vittoria era molto stanca ma non riusciva a chiudere gli occhi dall'emozione. Lo zio le aveva concesso il permesso di dormire nella stanza della madre che rimase in stesse condizioni in cui Sonia l'aveva lasciata quando era partita per Italia quasi vent'anni fa. Vit­toria era talmente euforica che non riusciva a dormire. Si girava nel letto imma­ginando come poteva essere sua madre in epoca in cui diventava maggiorenne. Non potendosi addormentare si alzò dal letto e si mise ad aprire tutti i cassetti del vecchio armadio ma sfortunatamente erano tutti vuoti tranne uno che conte­neva un vecchio quaderno con una piccola chiave appesa. Evidentemente sua madre aveva lasciato quel quaderno per qualche ragione a Vittoria sconosciuta. Le pagine del quaderno erano quasi tutte riempite dalla bellissima scrittura di Sonia e Vittoria subito pensò che si trattasse del vecchio diario della madre. Sulla prima pagina giaceva una foto sbiadita dalla quale sorrideva una coppia dei gio­vani. Li aveva riconosciuti al primo colpo, anche se ora erano invecchiati, ma quello sguardo innamorato era lo stesso che suo padre rivolgeva sempre alla mo­glie e che Vittoria avrebbe riconosciuto tra mille altri sguardi. Sulla fotografia c'era una dedica speciale: A Sonia che amo e che amerò per sempre e d'improv­viso Vittoria sentì le lacrime scendere dalla tristezza, dalla gioia. Si vergognò. Era come se con quel gesto avesse violato la privacy della madre, ma erano trop­pe le domande che si poneva da parecchio tempo e aveva bisogno di risposte che le erano state negate in passato.
Come se avesse qualche sesto senso, nella stanza accanto Sonia sentiva il do­lore e le lacrime che venivano dall'altra parte del muro. Suo marito dormiva bea­tamente come un neonato, ma a lei non veniva il sonno da troppe emozioni che aveva provato nelle ultime ore e quanto pareva non era l'unica. D'improvviso senti il desiderio di andare a controllare Vittoria come faceva quando era ancora la bambina. Prese la vestaglia e si diresse verso la sua camera d'infanzia. Bussò ma non avendo la risposta decise di aprire la porta. L'immagine che trovò davan­ti agli occhi la sconvolse tanto e non poteva che tornare almeno col pensiero in­dietro nel tempo. Era come se fosse ancora quella ragazza spensierata che si se­deva per terra con le gambe incrociate e con in mano il vecchio diario dove na­scondeva i suoi segreti solo che quella che adesso seduta per terra leggeva atten­tamente il diario non era Sonia ma la sua bambina. Lo stesso diario che Sonia aveva lasciato in casa quando se andò da Belgrado magari perché sapeva che un giorno proprio quel vecchio quaderno sarebbe stato il ponte che avrebbe unito il passato con il presente ed era proprio quello che stava succedendo davanti ai suoi occhi. Due generazioni si stavano unendo in una sola e in quell'istante So­nia capì che doveva raccontare a se stessa e a Vittoria una storia. Una storia che testimoniava di un passato migliore e più felice che a tutti loro regalava la sere­nità, la felicità ma anche la paura. Una storia che era basata sull'amicizia che non conosceva i confini. Una storia d'amore che aveva eliminato tutti gli ostacoli. Una storia che ebbe l'inizio e avrà fine in una città eterna semplicemente chia­mata Belgrado.
“Vittoria perché non stai dormendo?”
“Mamma! Potrei farti la stessa domanda sai. E scusa, perché non hai bussato? Non ho sentito quando sei entrata.”
“Ho bussato e come, ma eri talmente presa con la lettura che non ti sei nem­meno accorta di me tesoro. Non avevo sonno proprio come te. Papà dorme bea­tamente come un bambino, dovresti vederlo.”
“Non riesco ancora a crederci mamma che siamo tornati a Belgrado. Sono tanto eccitata che non esistono le parole per esprimerti quello che sto provando in questo momento. Poi, ho trovato questo quaderno in uno dei cassetti. Sempre mi dicevi che la lettura è un ottimo rimedio all'insonnia.”
“Il libro che hai trovato scrivevo quando avevo più o meno la tua età. Da pic­cola sognavo di diventare una grande scrittrice e tuo zio e papà non perdevano occasione per prendermi in giro per quello. “
“Come s'intitola il libro mamma?” Chiese Vittoria mentre riponeva il quader­no in cassetto.
“Hai voglia di sentire una storia?” Sonia fece finta di non aver sentito la do­manda.
“La storia che vuoi raccontarmi inizia qui a Belgrado?” Domandò Vittoria.
“Sì tesoro. La storia che adesso ti racconterò ha inizio a Belgrado nel lontano 1991.” Disse Sonia.
Si mise sotto le coperte insieme alla figlia come faceva quando Vittoria era piccola e ancora, ogni tanto, non potevano far a meno di questa vecchia abitudi­ne. Sonia chiuse gli occhi. Come in una magia decise di fare un'ultima passeg­giata nel giardino dei ricordi. La fine di questa passeggiata doveva portare a So­nia quella pace che cercava da tempo. Sperava che una volta per tutte avrebbe fi­nalmente trovato la strada verso un futuro migliore che, se Dio lo vorrà, condivi­derà con suoi amici. Con sua famiglia belgradese.


                                                ***


Perché ho impressione che anche la giornata di oggi non sarà tanto diversa da quelle che ho vissuto fino ad adesso? Anche oggi ho litigato con i miei genitori. Non riescono a capire che non sono più una bambina e che non possono dirigere la mia vita con una bacchetta. Lo so che la situazione in Paese non è una delle migliori e che quello che sta succedendo in Slovenia e Croazia non porterà nulla di buono. Ma che c'entriamo io e Dražen? Non sono mai stata una nazionalista e non vedo perché lo dovrei diventare proprio adesso. Ma questo non riesce a ca­pire il colonnello dell'esercito iugoslavo, mio padre, il seguace del vecchio ma­resciallo anche dopo la sua morte. E adesso questo nuovo Tito, in altre parole Miloše­vić, gli sta riempiendo la testa con quelle teorie assurde secondo quali dovrei la­sciare ora il mio ragazzo soltanto perché io sono una serba originale dalla testa ai piedi e avere un fidanzatino croato ora come ora sarebbe fuori luogo. Mi han­no proibito di vedere  Dražen e credo che non ho altra scelta in questo momento che andare via. Non so dove né con quali mezzi ma sento che non posso perdere più tempo.
“Sorellina, scusa se ti disturbo. C'è Dražen al telefono, vuole parlarti. Non dirò nulla al papà se mi dai qualche soldo.” Che mascalzone! A volte penso che hanno fatto qualche scambio in ospedale quando siamo nati, anzi direi proprio che è andata così perché il mio vero fratello non si sarebbe comportato in questa maniera. Ciò non toglie il fatto che io gli voglia un mondo di bene.
“Pronto! Ciao amore, come va?” Silenzio. Dall'altra parte della cornetta arri­vava un respiro profondo che non presagiva nulla di buono. “ Dražen?” Mi sento d'improvviso male, nervosa. Qualcosa non andava e il silenzio che si era creato tra di noi era il segno evidente che avevo ragione.
“Sonia, amore. Non so come dirtelo. Parto con i miei per Zagabria. La situa­zione a Belgrado è insopportabile. Non voglio crearti i problemi. Significhi tanto per me per poterti fare una cosa del genere.” Non era neanche cosciente di quel­lo che le aveva appena detto, di quello che era costretto di dirle.
Non riesco a spiccicare neanche una parola. Deve essere un sogno. Anzi è un INCUBO.  Qualcuno mi svegli per favore!
“Sonia ti prego, devi capire.” Stava cercando di convincerla con una voce tre­mante ma quello che non era convinto era proprio lui. “Così è meglio per tutti quanti.” Era meglio per loro famiglie e magari anche per loro stessi. Ciò non to­glieva il fatto che il dolore che Dražen provava, che provavano entrambi in quel­l'istante era forte. Avrebbe fatto di tutto se era possibile per risparmiare quel stra­zio ad entrambi ma ormai il gioco di loro padri era fatto. Purtroppo da lì a poco lui sarebbe partito e lei sarebbe rimasta da sola ad aspettarlo chissà per quanto tempo.
“Ma come ti viene in mente a dire queste idiozie? Non andartene o almeno portami con te! Portami con te Dražen ti supplico!” Lo so, mi sto comportando da bambina, proprio io che da sempre cerco di apparire forte ma in momenti come questo crollo come il muro di Berlino e vado in pezzi. Sto diventando mat­ta e mi viene da urlare dal dolore e la rabbia, troppa. Detesto questo Paese, lo stesso in cui credevamo tanto e che ora è svanito in una bolla di sapone. Odio questa guerra assurda di cui tutti straparlano che mi sta dividendo ora dal mio amore.
“Non posso portarti Sonia, cerca di capire. Sono sicuro che tutto questo finirà presto, vedrai.” Sta cercando di darle conforto di cui entrambi hanno bisogno ma  a stento crede a proprie parole. Erano soltanto all'inizio di una lunga battaglia però testardo come era non voleva crederci. Stava scappando dalla realtà cercan­do la salvezza in quel suo ottimismo per il quale lo ammiravano tutti e che non perdeva nonostante si trovasse nel peggior momento della sua vita.
“Dici?” Io non  ci credo. Non sono e non sono mai stata un'ottimista come lo è lui. “Ti auguro tanta felicità tesoro. Te lo auguro dal cuore.” Non sono contenta ma in nome del nostro amore so che devo, a malincuore, accettare la sua decisio­ne.
“Sonia non dire stupidaggini, per piacere!” Probabilmente lei aveva ragione ma lui non era pronto a prendere atto di quello che stava succedendo.
No, non voglio ascoltarlo. Quello che sento non mi piace affatto. Lui se ne sta andando portando con sé una grande parte del mio cuore. Dio ti prego, dimmi che non sta succedendo, dimmi che tutto fa parte di un incubo da cui mi sveglie­rò in un attimo. Dimmi che è soltanto una candid camera, un pesce d'aprile. Dražen ora sorriderà, mi dirà che si trattava di una barzelletta e mi chiederà il perdono.
“Sonia ti prego ascoltami. Voglio che mi prometti una cosa. Voglio che tu vada a Milano da Giuliana in caso che qualcosa di brutto succeda qui. Prometti­melo!” Milano era la città in cui si sono amati, la città in cui viveva la vecchia contessa che avevano conosciuto in una vacanza a Ragusa e che era diventata loro amica di cuore dopo l’ultimo viaggio a Milano che Dražen le aveva regalato per il diciottesimo compleanno. E proprio Milano era l'unico posto che conside­rava sicuro al momento.
“Te lo prometto!” Sto gettando l'ultima ancora di salvezza in quel mare burra­scoso che chiamiamo vita, l'ancora che magari un giorno m’impedirà di affon­dare.
“Ti amo Sonia! Abbi cura di te!” Echeggiavano le sue parole nella mia mente. Non è un sogno. È pura realtà, la realtà che eviterei solo se potessi.
“Abbi cura di te. Addio Dražen. Ti auguro ogni bene. Cercherò di scriverti.” È quello che sto facendo da una vita. Scrivo ma solo Dio sa a chi e perché.
“TI AMO SONIA! Non dimenticarlo MAI!” L'ultimo saluto. L'ultimo urlo.
“Anch'io ti amo!” Metto giù la cornetta tremando ancora. Perché la vita è così crudele? Che vada tutto al Diavolo! Lui se ne sta andando e io ho non ho il pote­re per convincerlo di cambiare idea. Dicono che col tempo ogni ferita si rimargi­na però in questo momento non riesco a crederlo. Magari un giorno lascerò alle spalle questo dolore immenso ma ora vorrei solo chiudere gli occhi e non pensa­re.
In soggiorno Darko stava guardando il telegiornale della sera. Ha dovuto alza­re il volume perché non riusciva a credere a quello che il giornalista stava dicen­do. Aveva già vissuto quella scena in precedenza, purtroppo. E gli è bastato poco per capire tutto, quel silenzio e quella lacrima che scendeva dal viso di  Dražen e che lui cercava inutilmente di nascondere ma Darko si era accorto di quel gesto. Si erano incontrati il giorno prima in un caffè. Suo miglior amico gli aveva con­fidato che temeva che da lì a poco avrebbe dovuto partire con i suoi contro la propria volontà ma Darko non gli credeva. Pensava che era una sua esagerazio­ne, uno scherzo che era assolutamente fuori luogo e quando Dražen cercò di dir­gli addio pensando che non avrebbe avuto più l'occasione per farlo, Darko si ri­fiutò. Da qualche parte nel cuore sentiva che era probabile che il fidanzato di sua sorella gemella dicesse la verità ma coscientemente cercava di ignorarla.
Qualcuno dietro le quinte muoveva i pioni della grande partita di scacchi bal­canica. Darko lo sapeva come sapeva che non avrebbe mai perdonato a se stesso per non aver salutato il suo miglior amico che per colpa dei grandi ha dovuto la­sciare gli amici con cui era legato per tutta la vita grazie a quel giuramento del primo gennaio scorso. Presto sarebbero diventati “nemici” che al  comando dei loro leader nazionalisti dovranno combattere l'uno contro l'altro. Era una nuova realtà balcanica che Darko e non solo lui doveva accettare per forza, una realtà che quasi per un decennio avrebbe diviso i popoli iugoslavi.
“Sonia devo dirti una cosa. Hanno appena annunciato al telegiornale. La Croazia ha proclamato l'indipendenza. Ecco perché Dražen ti ha chiamato prima. Ieri ci siamo visti. Aveva cercato invano di salutarmi, di dirmi che stava per par­tire e io idiota non ho voluto credergli. Vorrei poter credere che tutta questa fol­lia avrà presto fine ma ho una sensazione che non mi piace affatto.” Darko era sconfortato e molto triste, proprio come lo era sua sorella, e avrebbe voluto dirle qualche parola di conforto ma non ne trovava.
“Ma è possibile che il mondo è cambiato stanotte mentre dormivamo? Ieri tut­to era così normale e oggi come se tutti fossero diventati matti. Fratellino, dim­mi che tutto andrà bene.” Disse Sonia mentre si asciugava le lacrime.
“Andrà tutto bene sorellina.” L'abbracciò forte. Il suo abbraccio aveva sempre l'effetto tranquillante su di lei.


Katarina era incredula. Suo miglior amico se ne stava andando per sempre e per lei era una cosa difficile da digerire in quel momento. Guardava con la tri­stezza i genitori di Dražen che mettevano le valigie nella vecchia Renault quattro e le sembrava che stesse sognando ma la voce rauca della mamma di  suo mi­glior amico d'infanzia crudelmente la portò alla realtà. La Strega, il sopranome che i bambini del quartiere avevano dato alla signora Jadranka, stava rimprove­rando figlio perché non voleva lasciare quella “puttanella serba” e con sue parole non aveva scioccato soltanto il figlio che stava piangendo, ferì profondamente anche Katarina che era la miglior amica sia di Sonia che di Dražen. Katarina po­teva capire che la Strega, un nome appropriato per lei, era contraria alla relazio­ne del figlio con Sonia, ma che poteva essere così presa dal nazionalismo, que­sto era inconcepibile per una giovane ragazza che era cresciuta in un clima di fratellanza e unità che disegnava una Iugoslavia che ormai stava morendo.
Anche  Dražen soffriva per le parolacce pronunciate dalla madre. Non voleva partire ma al suo malgrado non aveva altra scelta che obbedire ai genitori. Dove­va anche se gli costava molto accettare la situazione che si era creata ma non po­teva partire senza salutare la ragazza che era nata nello suo stesso giorno e col tempo era diventata sua miglior amica. Sua madre poteva anche protestare ma a lui non importava più niente. Visto che non era riuscito a dire addio a Sonia guardandola negli occhi, non poteva fare lo steso sbaglio con sua sorellina ac­quisita. Katarina piangeva e al suo viso era ben notabile lo stesso dolore che cal­pestava l'anima di Dražen che in quel momento odiava stupidi politici più di qualunque altra cosa del mondo. Sapeva che sua adolescenza stava per finire e che da domani non sarebbe stato più lo stesso. Ormai era morto, gli avevano tol­to tutto quello che dava senso alla sua vita, e aveva l'ultimo desiderio prima di “morire”: chiedere a Katarina di avere cura di Sonia e di starle vicina. Non volle ammettere, ma quando sentì l'insulto di sua madre, solo in quell'istante si rese conto che difficilmente sarebbe tornato nella sua città natale in arco di poche set­timane come lui prevedeva. Guerra era alle porte nonostante lui e i suoi coetanei non la volessero. Una guerra che inevitabilmente avrebbe cambiato non soltanto la storia contemporanea ma anche le vite di tanti ragazzi innamorati come erano  Dražen e Sonia.



                                                     *


Amore mio. Ti avevo promesso che ti avrei scritto ma non sono ancora sicura se spedirti o no questa mia lettera, tanto-meno se la riceverai un giorno. Qui è tutto come sempre, la solita routine belgradese. Stamattina ho parlato con Zvonko, nostro amico e il compagno di classe. Te lo ricordi? Dice che la guerra civile è un'enorme stupidaggine che hanno inventato i politici annoiati della pe­nisola balcanica insieme a quelli mondiali e che, quando finiranno di perdere tempo, tutto sarà finito e potrai tornare a casa. Ci siamo trovati in quel bar vici­no al nostro liceo e mentre bevevamo il caffè, evocavamo le memorie liceali. Mi sono ricordata di te, di come eravamo felici tempo fa quando ci siamo messi in­sieme, e mi è venuta una nostalgia forte di nostre passeggiate notturne lungo la via Knez Mihajlova mentre la città dormiva. Mi sussurravi le poesie del tuo poe­ta preferito Prevert e mi canticchiavi le canzoni del tuo cantante idolo Iv Mon­tain. La Francia era il tuo Paese preferito, la lingua francese una passione se­greta, mentre io sognavo Italia, Milano mio, un sogno che se avverò grazie a te amore mio. Ti ricordi?Mi regalasti il viaggio a Milano per il mio diciottesimo compleanno. Stavo piangendo sull'aereo per paura di volare e tu mi prendevi in giro dicendomi che sono la tua bimba grande. Io mi ricordo di tutto, di nostri primi baci, le prime carezze, la prima volta. Persino ricordo gli stupidi litigi per la colpa di diverse fedi calcistiche. Mi sembra fosse passato un secolo e non solo un paio di giorni da quando te ne sei andato. Almeno allora ero felice ma non lo sono più. E tu? Sei felice Dražen? Te lo auguro. Con affetto, Sonia.
 Sono riuscita a scrivere questa lettera nonostante pensassi fosse impossibile. Dovrò chiedere a Darko di spedirla di nascosto perché se il Colonnello scopre la mia corrispondenza con Dražen potrebbe arrabbiarsi con me e non credo che po­trei sopportare un altro litigio. La verità è che io sono già stanca di tutto, di que­sta situazione assurda.  È l'ora del TG. In Slovenia le acque si sono calmate un po', in Croazia ormai si combatte alla grande e quanto pare presto anche Bosnia entrerà in questo gioco assurdo che i grandi chiamano guerra civile. Ci sono già le prime vittime, i ragazzi anche della mia età che hanno regalato le proprie vite ad un regime che non apprezza e non saprà apprezzare mai questo dono. Sì, in tanti si sono arruolati. Mio fratello ha deciso di diventare il soldato dell'esercito paramilitare che guida quell'idiota di Arkan. Il Colonnello non lo sa ancora, il genio di mio gemello vuole metterlo davanti al fatto compiuto. Non sono d'accordo con lui, anzi mi sembra una pessima idea, e non soltanto perché al Colonnello non piace Arkan. Nostro padre considera valido soltanto l'esercito del maresciallo Tito che, anche se l'originale non c'è più, quel Milošević ormai si è autoproclamato prendendo il suo posto. Per essere sincera, io non capisco nulla di politica ma so che questa guerra non ha alcun senso. Se la fratellanza e l'unità non erano più i principi in cui credere, non era più facile dirsi addio senza combattere? Ma questo nostri politici non capiscono. Ormai sono troppo presi dall'oddio e da quel veleno balcanico da cui moriranno un giorno. Quando avranno raggiunto il maestro, almeno avranno una storia da raccontargli: come sono riusciti a distruggere quello che lui aveva costruito con tanta fatica.
“A cosa stai pensando Sonia?” Era talmente presa dai propri pensieri che non aveva notato la presenza del fratello.
“Ciao fratellino. Non ti ho proprio sentito. A cosa sto pensando? Al virus chia­mato Balcani. È molto contagioso se non lo sapevi. Vedo che tutti attorno a me si sono ammalati. Tu, Colonnello, Vidosava. Io sono l'unica sana nella nostra fa­miglia a quanto pare.” 
“Io non sono malato sorellina. Non sono mai stato meglio. Ho preso una deci­sione in cui profondamente credo Sonia. Cerca di capirmi. Oggi parlerò con papà. Partirò fra due giorni.”
Ha già deciso, anche se non sa a che cosa va in contro. Mi parla come se si trattasse della decisione se organizzare un torneo del basket con gli amici del nostro quartiere o no, e non di una decisione che non può dargli nulla che incer­tezze. Vorrei tanto prenderlo a pugni finché non si tolga dalla testa quell'idea as­surda della partenza solo se non fosse più forte di me.
“Non sei un bambino Darko, questo lo so. Però non si tratta di un gioco ma di una realtà crudele. Cerca tu di capire ME. Non vorrei perderti fratellino, anche se a volte mi rompi le scatole. Ciò non toglie il fatto che ti voglio un bene dell'ani­ma.”  Le sue parole avevano commosso Darko che istintivamente la abbracciò. 
“Ma hai già dimenticato che io sono indistruttibile? Per la cronaca, anch'io ti voglio tanto bene sorellina. Hai scritto la lettera per Dražen? Vado in centro e potrei spedirla, ovviamente se mi darai una ricompensa.” Disse Darko sorriden­do.
“E io caro fratellino potrei dire a papà chi l'estate scorsa gli rubò la macchina. Così saremmo alla pari, no?” Conosceva troppo bene suo fratello. Come ogni es­sere umano anche lui aveva i suoi punti deboli che Sonia sfruttava al suo favore ogni tanto.
“Se ci penso meglio sorellina, ti faccio questo favore senza chiederti nulla in cambio. Dopo tutto, sei o non sei la mia sorellina preferita? Dammi la lettera.” Disse Darko mentre si preparava per uscire. Non riusciva a non prendere in giro la sorella. Risero entrambi alla battuta.
“Vattene! Voglio rimanere da sola.” Sono riuscita a mandare questa benedetta lettera. Dio solo sa se la riceverà. Io volevo soltanto mantenere la promessa che gli ho dato con la speranza che le mie parole sincere avrebbero creato una specie del ponte che in un futuro mi avrebbe riunito con lui.
“Papà, mamma, dovrei parlarvi.” Sento la voce di Darko che proveniva dal corridoio.
“Andiamo nel salotto figliolo. Così parliamo con calma.” Disse mio padre senza sapere che da lì a poco avrebbe scoppiato l'incendio. Da quel giorno tutto sarebbe cambiato e la mia vita non sarebbe stata mai più la stessa.
Purtroppo non sono riuscita ad evitare questo brutto momento. Anche questo sarà uno di QUEI giorni. Il mio mondo sta per autodistruggersi ed io non posso fare nulla per prevenirlo. Tutto quello che stavo costruendo da una vita, che na­scondevo dagli sguardi altrui, non esisterà più. A chi posso ringraziare per quel­lo? Alla vita? Al destino? A Dio? A mio malgrado non siamo in buoni rapporti, però mi rivolgerei volentieri a Lui. Purtroppo, oggi non riceve nessuno. È occu­pato con il gioco occidentale. Sta vincendo perché ormai conosce tutte le regole a memoria, ha contribuito nella loro creazione. E mi sa che ci devo rinunciare per il momento. Ma io non dimentico questo giorno con la g maiuscola. E non smetterò mai di lottare. AMEN.


  

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